IL GIARDINO DEL LICEO

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Aldo Bifulco

Il giardino del liceo

Edizioni Qualevita, pp. 144, euro 12,00

 

PREFAZIONE
Gli alberi e le piante giungevano al Liceo dalle più svariate provenienze: doni, ricerche proprie, dalla Forestale, addirittura dalla Calabria, non di rado occorreva andarli a ritirare con furgoncini ed auto private con l’aiuto di volontari, studenti e attraverso mille peripezie. Il nostro collega Michele Parisi,  veterano collega di scienze, lavorava alle piante col cuore oltre che con le sue esperte mani; Aldo Bifulco ci ha dato l’anima, Roberto D’Ambrosio è stato il suo fedele alleato. Ora tocca a Rosa Fortunato.
Se c’è qualcosa che rappresenta, anche visivamente, il cammino del nostro Liceo nel tempo, è proprio questo giardino. Ci lavoravano ex-studenti del Brunelleschi, i professori di scienze, gli studenti di oggi e ci lavoreranno quelli di domani. Forse niente rappresenta la memoria più e meglio di un albero: porta dentro di sé i tempi della sua storia, è presente oggi, sopravvivrà molto probabilmente a noi e ha già i rami protesi nel futuro.
Eppure basta un attimo di barbarie per distruggerlo.
È proprio in questa tutela del “creato” che si gioca la nostra dignità di abitanti della Terra.
Finché ci sarà rispetto per una pianta, ci sarà speranza di un futuro.
“Fare scuola”, forse è anche questo: educare ed educarci a lasciare una traccia positiva che parli di noi a coloro che chiameranno “passato” il nostro tempo.
                                                                                            
Carmela Pavone

 

                                                                “Forse il ponte è l’unica opera
                                                                  edilizia cordiale, che unisce
                                                                  e non separa.
                                                                  Chi per lavoro alza muri fa il
                                                                  mestiere della divisione.
                                                                  Solo il ponte è fabbrica di unione e,
                                                                  collegando rive, scavalca rivalità”
                                                                                                            Erri de Luca
                                                                                              
                                                                                                               
INTRODUZIONE
Nelle mie scorribande, spinto dalla fame di didattica, dalla ricerca di novità metodologiche e di esperienze significative capaci di smuovere l’apatia adolescenziale e  far emergere l’interesse per le scienze, spesso sopito sotto la cenere di sottocultura e di pregiudizi accumulati nel tempo, ho incontrato molte persone interessanti ed ho vissuto situazioni molto coinvolgenti.
Un vagabondare reso possibile anche dalla pazienza e dall’affetto della mia famiglia.
In uno degli ultimi convegni che hanno costellato il mio lungo percorso professionale ho partecipato ad un gruppo di lavoro dove si viveva un’esperienza fatta di silenzi, ascolto, musica ed emozioni denominata “Le matite di sabbia”. Mi soffermo solo sull’inizio.
Seduti in cerchio, prendendo spunto dalla tradizione dei pellerossa che assumevano “un nome” dettato da una sensazione, un’immagine, un incontro casuale, ci fu affidata la consegna di “ridarsi un nome”. La prima idea che mi balenò per la mente fu “arcobaleno” per la mia voglia e attitudine a legare punti distanti e situazioni diverse. Ipotesi scartata immediatamente;  un fremito di vergogna mi attraversò per averlo solo pensato, troppo impegnativo, ma anche troppo immateriale. L’arcobaleno, nel suo splendore, è un’immagine biblica, il grande simbolo della pace, il segno dell’alleanza dopo il diluvio. Nello stesso tempo appare poco consistente dal punto di vista fisico, un fenomeno di rifrazione e riflessione dei raggi solari incidenti su gocce d’acqua sospese nell’aria. Un fenomeno di breve durata tanto da far dire a W. Goethe  “un arcobaleno che dura un quarto d’ora nessuno lo guarda più”.  Scartata questa idea, cercai di pensare a qualcosa che avesse un significato simbolico simile, meno impegnativo sul piano ideale, ma, nello stesso tempo, più solido e duraturo.
Arrivato il mio turno il mio nome non poteva essere che “ponte”.
Successivamente ho riflettuto molto e meditato, forse per cogliere meglio la pregnanza di questa parola-chiave e verificare se non fosse stata anche questa un’ipotesi azzardata.
Ho scovato tra le tante pagine di giornale che raccolgo in modo quasi maniacale con lo scopo di rinnovare la memoria di certi eventi e di certi concetti, una che risale al 17 luglio 2004 che riporta un bel servizio sulla ricostruzione del Ponte Vecchio di Mostar (che in slavo significa città del ponte), il simbolo della città abbattuto dai cannoni il 9 novembre del 1993 durante la sanguinosa guerra tra serbi e croati. “Il nostro Vecchio era molto più di un semplice monumento. Serviva a tutti, univa i diversi. In esso era murata la memoria dei nostri avi; era il simbolo di tante generazioni”. Lo sanno bene gli strateghi del male, i guerrafondai, che bisogna abbattere i ponti per annientare una città, per distruggere una popolazione. E sulla rivista Confronti (una rivista ecumenica, poco conosciuta, che da anni sperimenta la fruttuosa convivenza nella redazione di persone di religioni e di culture diverse) ho trovato questa storiella: «Un’antica storia orientale racconta che vi fu un tempo in cui improvvisamente la Terra si corrugò e montagne e valli resero più difficile il cammino e lo spostamento degli uomini. E allora gli angeli stesero le loro ali così da costruire dei ponti che consentissero agli uomini di muoversi ed incontrarsi. Le loro ali, per quanto fragili, sono essenziali e necessarie per continuare a vivere insieme».
Per essere “ponte” bisogna avvertire uno struggente desiderio della pace, la necessità di una pacificazione tra gli uomini e tra essi e la natura, accogliendo la visione del mondo basata sulla coesistenza, sul collegamento e sulla reciprocità.
Per essere “ponte” bisogna acquisire un’apertura mentale che superi le rigidità e gli schematismi perché esistono fra noi umani solo verità parziali, briciole di sapere, e superare la barriera tra cultura umanistica e cultura scientifica in vista di un nuovo umanesimo.
Per essere “ponte” bisogna sapere che c’è sempre un vuoto, una valle, un ostacolo da superare e che c’è sempre una sponda da raggiungere e quindi mai abbandonare la tensione alla “ricerca”.
Essere “ponte” significa anche accettare la possibilità di essere “attraversato, calpestato” e che sul ponte difficilmente si può sostare se non per breve tempo. Creare insomma la “relazione” senza pretendere di essere il terminale, la sponda. La logica di servizio deve considerare la possibilità che non ci sia sempre una gratificazione o un riconoscimento adeguato.
Ma l’uomo può proiettare la sua arroganza anche sui ponti, come non pensare al progetto del ponte sullo Stretto di Messina!?! Ma questi sono ponti pericolosi perché non rispettano le proporzioni, non sono a misura dell’uomo per poter essere utili e durevoli.
Alla luce di tutte queste considerazioni mi accorgo che denominarmi “ponte” era solo frutto di una sincera aspirazione, di un forte desiderio… alla fine, forse, posso, al massimo, ma  tranquillamente considerarmi “un ponticello un poco sgangherato”.
Lo stesso termine “ponte” mi è venuto in mente quando ho pensato di trovare un valore simbolico, emblematico, al “giardino didattico del Liceo”. Un giardino costruito su un’area “desertica” con il lavoro venticinquennale di alcune maestranze della scuola, ma soprattutto degli studenti che si sono avvicendati anno dopo anno. Il termine, stavolta, mi è sembrato veramente appropriato, con la consapevolezza che si tratti di un ponte che unisce non nello spazio, ma nel tempo. Un ponte tra generazioni. La scienza nella sua storia ha dato molta importanza allo spazio, ignorando spesso il tempo. Ma “le memorie sono sicuramente più importanti dei chilometri”.
In questo caso non si è trattato di mantener viva solo una memoria, un’idea, ma una struttura concreta, un giardino che ha avuto ed ha  bisogno di cura e passione. Una struttura materiale che racchiude in sé “qualità e tempo”. Questi valori hanno rappresentato una fiammella da tenere sempre accesa, da trasmettere di generazione in generazione, tra persone fluttuanti che sostano in loco solo temporaneamente.
In un tempo caratterizzato dalla cultura dell’“usa e getta”, dal “produci e consuma in fretta”, da un’esasperata considerazione del presente, questo progetto, cominciato all’insegna della precarietà, della povertà dei mezzi, si è caratterizzato per la sua continuità, per la sua durata, un ponte tra le generazioni, appunto.
Oltre che rispondere ad una sollecitazione nata in momenti e contesti diversi, lasciare una traccia di questa storia è divenuta per me, che l’ho vissuta fin dal suo nascere, quasi un dovere, prima di lasciare definitivamente il mondo della scuola.
Questa scrittura non vuole assumere lo stile di un diario, di una cronaca progressiva, ma nemmeno una riflessione organica del valore didattico ed educativo dell’esperienza e neanche  la presentazione della metodologia attiva che si è utilizzata nell’insegnamento delle scienze.
Vuole essere una narrazione.
Una narrazione che contiene un po’ di tutte le cose prima menzionate; bisogna cercarle e ordinarle e questa fatica non voglio evitarla  all’eventuale lettore.
Scatti razionali ed emotivi non sequenziali.
I dodici capitoli, quanti sono i mesi dell’anno, quasi a voler sottolineare la forte considerazione del parametro “tempo”, sono introdotti da un nome. Nomi e volti reali, ma mancano i cognomi, anche per quelli che saltuariamente compaiono all’interno del capitolo. Alcuni li ho dimenticati; la memoria dei vecchi sembra più legata alle relazioni, alle situazioni che alla precisione dei nomi e delle parole. Ma rappresenta anche una scelta nell’impostazione del racconto; i nomi sono soprattutto “espedienti narrativi” che mi consentono di sviluppare quella parte della storia con il suo corredo di pensieri, di riflessioni, di emozioni. Ma rappresentano volti reali, importanti, che mi sono presenti e a cui mi legano forti sentimenti di affetto. Ma sono tanti, molti di più i volti che mi si parano davanti nella ricostruzione di questi lunghi anni. Tanti altri fili sono presenti in questa intricata trama di relazioni. Tanti con i quali ho condiviso esperienze significative, che hanno avuto un ruolo decisivo nella definizione del mio cammino, ma che non sono spendibili in questo contesto narrativo.
Mi piacerebbe che tutti quelli (la stragrande maggioranza) che, pur avendo avuto un ruolo in questo progetto, non si sentono nominati, si potessero riconoscere nella dimensione plurima, collettiva che ha caratterizzato questa esperienza. I singoli si confondono nella matrice comune e consistente che ha sostenuto questa bella avventura. Una dimensione che si è affidata al tempo, un ponte tra le generazioni.
I soggetti di questa narrazione sono: un territorio da riconvertire, un giardino creato e curato, i docenti di scienze, alcuni genitori e gli studenti. Soprattutto gli studenti a cui spetta di diritto la titolarità del “giardino didattico”. Un ultimo motivo per cui mi sono convinto di scrivere questo testo è per affermare con forza questo diritto. Le istituzioni ci avevano consegnato un “deserto”, le associazioni ed altri enti dopo il primo approccio, apparentemente interessati, ben presto si defilarono perché non nutrivano alcuna fiducia nella possibilità di successo dell’iniziativa. Come spesso accade nella storia, ad opera ultimata gli stessi soggetti tornano sulla scena e, presentando credenziali di carattere burocratico-amministrativo o di carattere culturale, tentano di mettere il proprio timbro sulla realizzazione.  Ovviamente tutti i contributi, anche quelli tardivi, che operano nell’orizzonte della sopravvivenza e del miglioramento del “giardino didattico” sono da ritenersi utili, sempre che non tradiscano la sua peculiarità: opera che nasce con e per gli studenti.
Mi piacerebbe che studenti di ieri, di oggi e anche quelli che verranno trovassero la forma organizzativa più adatta per continuare a sentirsi e ad essere gli artefici e i responsabili del “giardino didattico” del liceo.

 

 

Predrag Matvejevic “Ponti- Quando le guerre distruggono la civiltà”, Diario di Repubblica, 17 luglio 2004.

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